Rendere obbligatorio il vaccino contro il Covid-19 per i lavoratori?
Da alcuni mesi – quindi ben prima che le multinazionali farmaceutiche mettessero a punto i vaccini che vengono attualmente somministrati alle categorie esposte maggiormente a rischio professionale (sanitari, forze polizia ecc.) o fragili (anziani o affetti da patologie pregresse particolarmente gravi) – si è sviluppato un intenso ed articolato dibattito riguardo alla configurabilità di un obbligo di vaccinazione anti Covid19 da parte del lavoratore.
Sul punto si registrano sostanzialmente due posizioni contrapposte – ed una “terza via” alla quale è stata dedicata scarsa considerazione – che richiamano principi costituzionali, “riserve di legge”, leggi speciali, ripartizione delle competenze tra regioni e Stato centrale e, per ultimo, le pronunce giurisprudenziali in senso “evolutivo” in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
A sostegno della tesi di un “obbligo vaccinale” si è espresso l’ex magistrato R. Guariniello, – che ha richiamato il combinato disposto degli artt. 42 e 279 del d. lgs. 81/08.
Tale impianto normativo, come noto, impone al datore di lavoro (comma 2, lett. a), dell’art. 279), su conforme parere del medico competente, la messa a disposizione di vaccini efficaci, da somministrare a cura del medico competente, per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione.
L’art. 42, invece, stabilisce che il datore di lavoro attua le misure indicate dal medico competente e, qualora le stesse prevedano una inidoneità alla mansione specifica (nel caso il lavoratore si sia rifiutato di farsi vaccinare), adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.
Tra queste misure, in base all’art. 279, comma 2, non si esclude che possa essere annoverato anche il vaccino anti Covid-19 e nel caso in cui il lavoratore dovesse rifiutarsi, il datore di lavoro è obbligato ad imporne l’allontanamento temporaneo dal luogo di lavoro e ad adottare idonee misure tecniche e organizzative contro il rischio coronavirus a tutela dei lavoratori, da indicare nel DVR, o il ricorso allo smart working per i lavoratori cc.dd. fragili.
Ne discende che, in caso di rifiuto del lavoratore a vaccinarsi e di accertata impossibilità di adibirlo ad altra mansione compatibile con le misure di contenimento del virus, il datore di lavoro potrà licenziarlo per evitare il rischio di contagio di altri lavoratori e/o persone terze, in forza dei doveri che su di lui incombono ai sensi dell’art. 18, comma 1, lettere c) g) e bb) del d. lgs. n. 81/2008.
Con il licenziamento, inoltre, il datore di lavoro eviterebbe anche la possibilità di essere chiamato a rispondere in sede penale (per lesioni o omicidio colposo) ove l’inosservanza di tali obblighi sia causa di un’infezione da Covid-19, ricadendo su di lui un più esteso obbligo di sicurezza, sancito da una giurisprudenza di legittimità costante ed uniforme, che deve riguardare sia i rischi endogeni (cioè quelli direttamente riconducibili alla natura delle prestazioni di lavoro e alle specifiche caratteristiche degli ambienti di lavoro) sia i rischi esogeni (cioè quelli già presenti nell’ambiente sociale o nel territorio, ma che possono prevedibilmente riprodursi o/e aggravarsi in azienda) dei quali dovrà necessariamente dare conto nella redazione del DVR.
Sulla stessa lunghezza d’onda, seppur partendo da un presupposto giuridico diverso (art. 2087 del Codice civile) si è espresso il giuslavorista P. Ichino, che ha sostenuto la licenziabilità del lavoratore nel caso in cui il suo rifiuto di vaccinarsi mettesse a rischio la salute di altre persone, così da costituire un impedimento oggettivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro.
Sul fronte opposto non manca chi ritiene che gli obblighi imposti dalle disposizioni del Testo Unico non possano trovare concreta applicazione in quanto il datore di lavoro, almeno fino ad oggi (gennaio 2021), non può adempiervi poiché le risorse e le procedure di vaccinazione sono gestite solo dalla sanità pubblica o, ancora, chi sostiene che il licenziamento in caso di rifiuto da parte del lavoratore sia privo di fondamento normativo e, comunque, esiga che il datore di lavoro dimostri che la misura del vaccino sia necessaria per tutelare la salute negli ambienti di lavoro e che non vi siano misure alternative adeguate e ragionevolmente sufficienti per contenere il contagio (dispositivi di sicurezza, metodi di disinfezione, smart-working, ecc.).
Vi è chi, inoltre, pur tenendo conto della complessità della questione, ritenga possibile prevedere che l’obbligo vaccinale possa essere compreso nei protocolli sottoscritti tra le parti sociali il 14.03.2020 e 24.04.2020, grazie ai quali è stato possibile garantire la prosecuzione delle attività produttive tramite l’introduzione di adeguati livelli di protezione dal Covid19 per la popolazione lavorativa.
Al riguardo vale la pena rammentare che il legislatore è intervenuto statuendo altresì, con l’art. 29-bis del c.d. Decreto Liquidità, che “i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del Codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso…”.
La contrapposizione frontale fra le opposte tesi dimostra in modo lapalissiano che i plurimi profili giuridici che tutelano anche diritti fondamentali della persona, a partire dall’art. 32 della Costituzione (“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”), offrono il fianco a conclusioni contrapposte che richiedono una sintesi ragionata e ragionevole, a partire dalla funzione del medico competente il quale, a mente dei predetti “protocolli”, in stretta collaborazione con il datore di lavoro e con i RLS/RLST può “integrare e proporre tutte le misure di regolamentazione legate al COVID-19” nonché applicare “le indicazioni delle Autorità Sanitarie”.
Per le ragioni sin qui sinteticamente esposte sorge più di un ragionevole dubbio circa la preminenza assoluta di una tesi rispetto all’altra, tanto che, in assenza di un obbligo vaccinale espressamente previsto dalla legge, potrebbero persistere profili di dubbia legittimità di un eventuale licenziamento per “inidoneità professionale” causata dal rifiuto di un lavoratore di vaccinarsi.
In attesa di un intervento delle parti sociali e/o del legislatore, infine, merita una qualche attenzione quella che abbiamo definito la “terza via”, rappresentata da quella che taluni studiosi hanno definito la “spinta gentile” con la quale lo Stato favorisce il comportamento desiderato (vaccinarsi), mentre rende più complesso, o meno vantaggioso, quello non desiderato.
La regione Lazio sembra volersi muover proprio in questa direzione.
In altre parole, una sorta di ‘patentino vaccinale’ contro Covid-19, almeno nel medio periodo, potrebbe divenire necessario per: << …ottenere o mantenere determinati tipi di impieghi o di mansioni, ad esempio nel settore sanitario; frequentare determinati eventi sportivi o culturali, ovvero palestre, cinema, teatri e altri luoghi di ritrovo; ottenere una riduzione nei tempi di accesso a prestazioni sanitarie (non salva vita) ecc.…>>.
Il tempo stringe e l’emergenza epidemiologica esige una chiara assunzione di responsabilità da parte dei pubblici poteri, nonché risposte inequivoche e tempestive che rendano concretamente raggiungibile, in tempi certi, l’unico rimedio contro l’ulteriore sviluppo pandemico del Covid19: l’immunità di gregge.