Approfittiamo del carattere evocativo della data dell’otto marzo per ritornare su un tema di strettissima attualità: quello della parità di genere nelle politiche (e nella prassi) per la tutela della salute e sicurezza delle lavoratrici negli ambienti di lavoro.
Non ci pare fuori luogo cominciare con le conclusioni a cui è pervenuta la Commissione d’inchiesta del Senato sugli infortuni sul lavoro che, nel 2013, così si esprimeva: “ un altro tema, legato
sempre alla necessità di una maggiore e specifica attenzione alle caratteristiche personali dei lavoratori, è quello delle malattie professionali: ad esempio (…) esistono alcune malattie <<di genere>>, ossia patologie professionali (legate alle condizioni lavorative di determinati settori) che colpiscono in modo diverso uomini e donne e danneggiano la loro stesa capacità riproduttiva.”
Sempre nella medesima relazione è riportato che “… un aspetto particolarmente importante ma talvolta, per così dire, sottovalutato della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è quello relativo alla distinzione di genere (…). Si tratta di profili che attengono in modo particolare – anche se non esclusivo – ai rischi di malattie professionali, tenendo conto della diversa esposizione che i lavoratori e le lavoratrici possono avere in determinate circostanze, in ragioni delle differenti mansioni eventualmente svolte e soprattutto della loro diversa fisiologia.”
Un’analisi che si conclude con una annotazione che, pur dando atto dei notevoli progressi fatti nella formulazione giuridica in materia di differenze di genere nella valutazione dei rischi e nella predisposizione delle misure di prevenzione, non trascura l’esperienza fattuale dalla quale purtroppo emerge che “ un principio già vigente nel nostro ordinamento, nella pratica viene spesso trascurato o comunque non sufficientemente applicato, il che costituisce una grave lacuna per l’efficacia del sistema di prevenzione e di tutela dei lavoratori e delle lavoratrici”.
Difficile dissentire da una così equilibrata ma rigorosa analisi dello stato dell’arte in questa delicata materia, che ci spinge a sottolineare l’imprescindibile necessità di proseguire lo sforzo comune per dare piena ed effettiva attuazione alle disposizioni normative (di rango nazionale ed europeo) che ci obbligano a considerare in maniera differenziata tra uomini e donne, i rischi specifici per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro.
Se da un lato resta ancora molto da fare sul piano delle “buone prassi”, qualche buona notizia ci viene dal versante giuridico.
Non è certo un caso se, grazie alle spinte propulsive dell’Unione europea, siamo passati (seppur con notevole ritardo) da un approccio normativo del tutto “neutro” contenuto nel D. Lgs. 626/94, ad uno più attento alle differenze di genere compendiato nelle norme del D. Lgs. 81/08 e successive integrazioni, a partire dall’art. 1 che, come noto, garantisce “l’uniformità della tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di genere (…)”.
Non ci pare superfluo segnalare, tra l’altro, che anche l’art. 28 del vigente testo unico (oggetto della valutazione dei rischi) preveda espressamente che “la valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, (…) nonché quelli connessi alle differenze di genere (…).”
Ad ulteriore conferma della ritrovata attenzione del legislatore sulle differenze di genere, depone anche la previsione di cui all’art. 6, comma 8, lett. l, che assegna alla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro il compito di “promuovere la considerazione della differenza di genere in relazione alla valutazione dei rischi e alla predisposizione delle misure di prevenzione”.
A completamento di un quadro normativo e regolamentare che non lascia più alcun margine di incertezza in ordine alle finalità che il legislatore intende perseguire nella materia che qui ci impegna, segnaliamo anche l’attività demandata al Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione nei luoghi di lavoro (SINP) – disciplinato dall’art. 8, come modificato dal D.lgs. n. 106/2009 (c.d. correttivo al D.lgs. n. 81/2008) – con la finalità di fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare e valutare l’efficacia della attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e per indirizzare le attività di vigilanza, attraverso l’utilizzo integrato delle informazioni disponibili negli attuali sistemi informativi, anche tramite l’integrazione di specifici archivi e la creazione di banche dati unificate che devono riguardare il quadro dei rischi anche in un’ottica di genere e quello di salute e sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici.
La parità di genere, poi, oltre ad essere un obiettivo di indiscutibile valenza sociale ha immediati riflessi anche di natura economica in quanto, da un lato consente il contenimento dei costi sociali per quanto riguarda le spese sanitarie e i meccanismi previdenziali di tipo compensativo (oltre a quelli più squisitamente risarcitori connessi al danno subito), e dall’altro incide anche sugli indici di produttività.
Tale impianto trova puntuale conferma nel “Piano di strategia europea 2007-2012 nel quale si rileva che per migliorare l’attitudine occupazionale delle donne e degli uomini e la qualità della vita professionale, occorre fare progressi nel settore della parità tra i sessi in quanto le disparità possono avere conseguenze sulla sicurezza e la salute delle donne sul luogo di lavoro e quindi incidere sulla produttività.”
Non solo. “Le azioni di prevenzione, così come le norme di compensazione e di indennizzo, devono prendere in considerazione in modo specifico la partecipazione crescente delle donne al mondo del lavoro, nonché i rischi per i quali le donne presentano una particolare sensibilità”.
Tali azioni, poi, devono basarsi su “(..) ricerche ad ampio spettro che tengano nella debita considerazione gli aspetti ergonomici nella realizzazione dei posti di lavoro, gli effetti dell’esposizione agli agenti fisici, chimici e biologici nonché la valutazione delle differenze fisiologiche e psicologiche nell’organizzazione del lavoro.
In ossequio a tali direttive europee, il D. Lgs. 32/2013 (Attuazione della direttiva 2007/30/CE del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica le direttive del Consiglio 89/391/CEE, 83/477/CEE, 91/383/CEE, 92/29/CEE e 94/33/CE ai fini della semplificazione e della razionalizzazione delle relazioni all’Unione europea sull’attuazione pratica in materia di salute e sicurezza sul lavoro) ha modificato il Testo Unico prevedendo un ulteriore compito a quelli già attribuiti alla Commissione Consultiva Permanente, ovvero quello di redigere ogni cinque anni una relazione sull’attuazione pratica della direttiva 89/391/CEE del Consiglio e delle altre direttive dell’Unione europea in materia di salute e sicurezza sul lavoro, comprese le direttive del Consiglio 83/477/CEE, 91/383/CEE, 92/29/CEE e 94/33/CE, con le modalità previste dall’articolo 17- bis della direttiva 89/391/CEE del Consiglio.
Ma non basta.
In materia di sorveglianza sanitaria e di raccolta dati, l’art. 40 comma 1 del D. Lgs. 81/08 (Rapporti del medico competente con il Servizio Sanitario nazionale) prevede che “entro il primo trimestre dell’anno successivo all’anno di riferimento il medico competente trasmette, esclusivamente per via telematica, ai servizi competenti per territorio le informazioni, elaborate evidenziando le differenze di genere, relative ai dati collettivi aggregati sanitari e di rischio dei lavoratori, sottoposti a sorveglianza sanitaria (…).”
A completamento di un quadro legislativo che ci pare esaustivo rammentiamo che l’art. 6 comma 2 del Testo Unico vigente prevede che “ai lavori della Commissione possono altresì partecipare rappresentanti di altre amministrazioni centrali dello Stato in ragione di specifiche tematiche inerenti le relative competenze, con particolare riferimento a quelle relative alle differenze di genere e a quelle relative alla materia dell’istruzione.”
In tale direzione si è mossa anche l’INAIL che ha provveduto ad integrare le proprie banche dati statistiche degli infortuni e delle malattie professionali dividendo per sesso i casi denunciati e/o indennizzati, fino a creare, negli ultimi anni, una banca dati al femminile di indubbia utilità sia nella valutazione dei rischi che nell’attività preventiva.
Ovviamente non possiamo nascondere che nonostante il rinnovato impianto normativo e le politiche messe in atto, esiste ancora una forte differenza di genere a livello lavorativo che rappresenta il frutto avvelenato di una inadeguata stima dei rischi per la salute e la sicurezza legati al lavoro delle donne e della conseguente mancata attivazione di un’adeguata attività di prevenzione.
È pertanto auspicabile che vengano sviluppati specifici programmi in materia di sicurezza e salute negli ambienti di lavoro che tengano conto della differenza di genere e che prospettino l’elaborazione di linee guida omogenee e soprattutto applicabili.
Occorre inoltre fornire informazione, sensibilizzare e promuovere una ricerca di qualità mettendo a fattor comune le competenze e le sensibilità dei diversi attori in campo, dagli enti di ricerca alle università, dalle parti sociali agli enti statali partendo dalla incontrovertibile constatazione che sotto il profilo epidemiologico esistono differenze di genere in tema di infortuni e malattie professionali.
A nostro avviso bisogna promuovere una maggiore partecipazione attiva delle donne nella determinazione delle politiche in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, con un approccio più attento agli aspetti di genere che faccia perno sul fatto che la donna può e deve essere considerata come un motore di cambiamento sistematico.
Un cambiamento che impone di rivedere gli attuali modelli culturali e organizzativi, frutto di una visione “neutra” definitivamente superata dalle norme ma ancora ben lontana dall’essere stata effettivamente superata nei fatti.
Prova ne è la carenza di informazioni scientifiche sulla sicurezza e salute del lavoro in rapporto al genere e la profonda diseguaglianza tra maschi e femmine nella ricerca epidemiologica sulla salute occupazionale, prevalentemente indagata nei maschi a fronte di un tasso lavorativo delle donne che è passato dal 35,8% del 1993 al 45,2% del 2004, ben lontano dall’obiettivo già fissato dalla strategia di Lisbona, che prevedeva l’impiego del 60% di donne entro il 2010. Un obiettivo che, secondo la Banca d’Italia, avrebbe ricadute positive per tutta la società, facendo crescere il Pil del 7%.
Ovviamente il ritardo che registriamo soprattutto in Italia ha una spiegazione anche di tipo storico e culturale.
In Italia, la struttura economica, l’organizzazione del lavoro, gli stereotipi di genere sono strettamente correlati a quanto lavoro di cura ci si aspetta che venga svolto dalle donne nelle case, al tipo di welfare a cui hanno accesso e alle possibilità che hanno di entrare nel mercato del lavoro.
Le donne italiane sono considerate come le principali referenti e responsabili del lavoro domestico e di cura: secondo Eurostat dedicano alle responsabilità familiari più tempo di tutte le altre donne europee, ben 5 ore e 20 minuti al giorno.
Ossia 3 ore e 45 minuti più degli uomini.
Questa differenza nell’uso del tempo tra uomini e donne tende a diminuire a mano a mano che il tasso di occupazione cresce: in Svezia per esempio sono solo 73 minuti. Le donne svolgono ancora la maggior parte dei lavori domestici e si prendono cura dei bambini e dei parenti anche se lavorano a tempo pieno.
Si aggiunga che:
a) le donne non sono sufficientemente rappresentate nei processi decisionali riguardanti la salute e la sicurezza sul lavoro a tutti i livelli;
b) le esperienze, le conoscenze e le competenze sono scarsamente prese in considerazione nella formulazione e nell’attuazione delle strategie di sicurezza e salute sul posto di lavoro;
c) le strategie nazionali finora adottate non hanno adeguatamente tenuto conto della differenza di genere.
In conclusione la valutazione del rischio per le lavoratrici dovrebbe rappresentare una valutazione del rischio specifica, non “asessuata” com’è accaduto fino ad oggi, da effettuare conformemente alle disposizioni normative vigenti, adeguando il lavoro e le misure prevenzionistiche e riorganizzando, per quanto possibile, una migliore conciliazione tra lavoro e vita familiare della donna prevedendo, ad esempio, un maggiore ricorso al part-time, job sharing (suddivisione del lavoro), alla flessibilità, al telelavoro e incentivando la presenza di asili nido all’interno di aziende di grandi dimensioni o in aree con elevata manodopera femminile.