Un operaio ha subito un grave infortunio sul lavoro nel corso del quale ha perso due dita della mano destra, avvenuto mentre operava su un macchinario destinato alla lavorazione del materiale trattato dall’azienda.
Nei giorni immediatamente successivi all’incidente, mentre si trovava ricoverato e sotto l’effetto di morfina, somministratagli per meglio sopportare il dolore che gli impediva di dormire e di ragionare lucidamente, riceveva la visita del responsabile di reparto dell’azienda che, sin da quel momento già gli contestava, seppure informalmente, di avere operato in modo improprio, attribuendogli e convincendolo della responsabilità dell’accaduto.
Seguiva, a distanza di qualche giorno, una contestazione disciplinare, in cui si addebitava all’operaio di non aver seguito la procedura corretta di arresto della macchina; per questa ragione sarebbe rimasto impigliato nella stessa con la mano.
Il lavoratore, senza opporre troppa resistenza, veniva successivamente indotto a sottoscrivere un verbale di accordo in sede sindacale con il quale si assumeva la responsabilità della “grave infrazione” mentre l’azienda, per pura “benevolenza”, gli comminava la “sola” sanzione della multa per alcune ore con conseguente trattenuta della corrispondente retribuzione (!).
I fatti sono andati effettivamente così, ma nessuna valutazione di responsabilità potrà essere obiettiva senza considerare l’intero contesto in cui sono avvenuti i fatti.
Casi come questi, purtroppo, sono all’ordine del giorno, e non occorre scomodare la giurisprudenza per percepire l’ingiustizia di una definizione della vicenda tanto spiccia quanto faziosa.
Ad ogni modo, per meglio comprendere l’ingiustizia sul piano giuridico oltre che morale, e soprattutto per delineare le reali e rispettive responsabilità del datore di lavoro e del lavoratore ci soccorrono varie sentenze emanate negli anni, fino a giungere a stabilire alcuni principi ineludibili per garantire ai lavoratori una adeguata tutela.
In particolare, da ultimo, la sentenza 2 febbraio 2016 n. 4347, della IV sezione della Corte di Cassazione ha affermato che la responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio del suo dipendente, può essere esclusa, in tutto o in parte, solo qualora sia provato che il comportamento del lavoratore sia stato abnorme e che, proprio questa abnormità, abbia causato l’incidente; abnormità che per la sua imprevedibilità sta al di fuori della possibilità di controllo dei soggetti che hanno il ruolo di garanti.
Si tratta di una sentenza coerente con le decisioni della Suprema Corte che l’hanno preceduta e che avevano precisato che il comportamento “abnorme” è quello che esorbita rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute e dunque come tale completamente imprevedibile, proprio nel senso che il datore di lavoro non possa prevedere quel pericolo e certamente non possa evitarlo.
Un’altra importante pronuncia della Cassazione del 2015, seguita da altre conformi, ha stabilito che non sussiste la responsabilità o la corresponsabilità del lavoratore per l’infortunio occorsogli, quando il sistema di sicurezza predisposto dal datore di lavoro presenti evidenti criticità, atteso che le disposizioni antinfortunistiche sono finalizzate a tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l’instaurarsi da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza di prassi di lavoro non corrette.
Il lavoratore di cui si è detto, peraltro, non aveva ricevuto alcuna formazione specifica prima di essere applicato a lavorare su quella macchina; al contrario, come capita di frequente, lo stesso datore di lavoro gli aveva fornito “istruzioni verbali” destinate perlopiù ad evitare rallentamenti della produzione che non a prevenire infortuni ai suoi danni, raccomandandogli semplicemente di usare “ prudenza”.
E così che un lavoratore potrebbe essere indotto – ingiustamente – ad attribuirsi responsabilità che non gli sono proprie pur di compiacere il datore di lavoro ed pur avendo subito conseguenze nefaste.
Ma il datore di lavoro cui spetta l’onere di provare l’abnormità e l’imprevedibilità del comportamento del lavoratore non potrà certo ritenersi forte della sottoscrizione del verbale di accordo da parte del proprio dipendente per affrontare un giudizio che lo possa davvero esimere dalle responsabilità, penali e civili.
Analoghe responsabilità ricadono sull’azienda anche nel caso di collaborazioni non subordinate, per l’obbligo del datore di lavoro di predisporre un ambiente salubre ed esente da rischi.
L’art. 2 del D.Lgs n. 81 del 2015 (decreto attuativo del Jobs Act) prevede infatti che per i rapporti stipulati a far data dal primo gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche con riferimento alla normativa di prevenzione degli infortuni per i rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.
Quello che occorre per tutelare al meglio gli interessi del lavoratore è assicurarsi che le indagini, (comprensive di sopralluoghi, verifiche sul macchinario e sua rispondenza alle norme di sicurezza, verifica di avvenuta e adeguata formazione del lavoratore) portino alla luce oltre che il mero fatto, anche il contesto in cui lo stesso si è verificato.
* Avvocata penalista, consulente della Cgil di Milano, vice-presidente del Centro antiviolenza Casa delle donne maltrattate di Milano, da sempre impegnata nella difesa delle donne vittime di violenza, psicologica, fisica ed economica, che si consuma in ambito “domestico” e nella difesa di uomini e donne che subiscono violenza, in tutte le sue espressioni, nei luoghi di lavoro.
Fonte : il fatto quotidiano
di Area pro labour | 22 giugno 2016