Abbattere la “burocrazia barocca” e il malaffare!
Un’efficace strategia di contrasto degli infortuni sul lavoro è un obiettivo che può essere realizzato a condizione che, la definizione di un contesto legislativo moderno e coerente con le normative internazionali e comunitarie, si accompagni ad un approccio al tema della sicurezza che sia di sostanza e non meramente formale.
Un approccio, in altre parole, per “obiettivi e non solo per regole” nella gestione della salute e sicurezza sul lavoro.
Fatta questa prima premessa, ne consegue che l’attività di prevenzione va quindi pensata ed attuata in un’ottica sistemica “in continuo divenire”: di talché ogni azione deve essere preceduta dall’analisi di ciò che potrebbe verificarsi (pericolo), dal calcolo della probabilità (rischio) che ciò succeda e dall’individuazione delle modalità di lavoro da attuare per ridurre il rischio.
In altre parole, il famoso documento di valutazione del rischio dovrebbe essere considerato e concepito come “un mezzo” per comunicare e rendere evidente il processo di valutazione dei rischi e non è “il fine”, cioè un pedissequo adempimento formale di una norma, pronto per essere esibito a richiesta degli organismi di vigilanza.
Ad una corretta valutazione del rischio deve necessariamente seguire la necessaria collaborazione degli altri “protagonisti” della salute e sicurezza in azienda.
E non è certo un caso se l’impianto normativo e regolamentare che disciplina la materia, dal canto suo, introduce un’importante novità sul modo di intendere e fare formazione, privilegiando un approccio interattivo che comporti la centralità del lavoratore nel percorso di apprendimento.
Non solo.
Se è vero che un modello sociale sano ed efficiente mette al “centro” la persona, la naturale conseguenza è che tale modello non può prescindere dalla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
La vera battaglia per ambienti di lavoro più salubri e più sicuri, quindi, va combattuta sul piano della modernizzazione dei contesti organizzativi e dei modelli gestionali del lavoro, là dove vincoli formali e norme talvolta inesigibili spingono verso forme di abusi ed improvvisazione che, come noto, sono alcune delle principali cause delle tante tragedie sul lavoro.
In una siffatta cornice, l’attività di ispezione e vigilanza sul lavoro dovrebbe essere interpretata come attività di servizio e non come mero “esercizio del potere”, soprattutto in alcune aree della penisola dove maggiore è il rischio di conflitti di interesse.
E ciò allo scopo di assicurare un’ispezione del lavoro efficace e credibile, capace di incidere sui comportamenti concreti dei datori di lavoro e dei consulenti, garantendo al contempo quel difficile equilibrio tra le imprescindibili istanze di tutela del lavoratore, la disciplina regolatoria e le esigenze di competitività delle imprese.
Le funzioni ispettive, fatto comunque salvo il rispetto delle regole in materia da parte di tutti gli “attori della sicurezza”, dovrebbero quindi essere rilanciate in chiave per così dire preventiva e promozionale, secondo parametri di correttezza, trasparenza e uniformità sull’intero territorio nazionale, eliminando finalmente un approccio di carattere meramente formale e burocratico, incapace di assicurare al lavoratore un adeguato contributo per la sua tutela.
L’attenzione andrebbe quindi meglio centrata sui risultati formativi effettivamente conseguiti più che sulle procedure e, prima ancora, sul lavoratore.
Piuttosto che concentrarsi sui fattori formali e burocratici dei percorsi formativi, pertanto, non sarebbe fuori luoghi prendere in esame le conoscenze, competenze o abilità che il lavoratore ha acquisito ed è in grado di dimostrare.
La formazione, da questo punto di vista, dovrebbe meglio adattarsi ai bisogni individuali, rafforzare l’integrazione con il mercato del lavoro e migliorare il riconoscimento e la valutazione dell’apprendimento nelle sue varie declinazioni.
In caso contrario il rischio concreto è quello di privilegiare una sterile “burocrazia barocca” che, di contro, non è in grado di arginare il malaffare che prolifera intorno alla formazione.
Non è certo un caso, infatti, che proprio in questi giorni siano assurti agli onori della cronaca i casi di “…chi falsifica i registri o non li redige neppure…. subappalta i corsi a enti non autorizzati e chi tiene lezioni di primo soccorso senza alcuna esperienza in campo medico…”, incorrendo in un ginepraio di ipotesi delittuose che vanno dalla “…. contraffazione alla truffa e all’associazione per delinquere.”
Ovviamente in questi casi occorrerebbe il massimo dell’impegno ispettivo (oggi, in molte regioni, viene ispezionato solo il 5% delle aziende) e del rigore sanzionatorio, per evitare che il combinato disposto della disomogenea applicazione delle norme prevenzionali da parte di talune regioni e alcune ambiguità di carattere regolamentare, possano diventare “terra di conquista” per personaggi ed enti o associazioni del tutto fittizie che, non di rado, non erogano neppure un simulacro di formazione ma non si fanno certo scrupolo di emettere attestati privi di qualunque valore formale e sostanziale.
Contro questa deriva dovremmo mobilitarci tutti, senza distinzioni di sorta e con il massimo impegno per “mettere al sicuro” la salute e la sicurezza di ogni singolo lavoratore a qualunque latitudini presti la sua opera.
Arianna De Paolis